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L’Economia circolare è una cagata pazzesca!

Premetto per chi non mi conosce che sono laureato in economia aziendale alla LIUC e ho fatto un master in america su temi legati al mangement, dunque al di la del mio interessamento, che c’è sempre stato nella materia ambientale, ho un background tutt’altro che filosofico, anzi decisamente pragmatico/aziendalista. Conosco “Accenture” e leggere certe cose da loro mi restituisce un senso di appagamento che solo chi ha letto per anni rapporti di ambientalisti studiando testi di economia aziendale “lineare” può capire.

Dunque risveglio della coscienza o “recupero di valore aggiunto” disperso nei cicli produttivi lineari? Vedremo. Fatto sta che, grazie ad alcuni amici, leggo di decrescita da anni, mentre di economia circolare da pochi mesi e subito il parlamento europeo ne fa una direttiva, sebbene molto discussa. Insomma una consapevole presa di coscienza da parte delle istituzioni o delle aziende oppure la solita ricerca di profitto attraverso una concezione circolare invece che lineare, profitto ottenuto con la conseguenza “positiva” di regolare il consumo di materie prime e ridurre le emissioni.

Ma, prima di emettere sentenze, andiamo per gradi.

Immaginiamo un prodotto di consumo, un telefonino ad esempio. Oggi il telefonino costa al consumatore 2-300 euro, si impiegano materie prime e tecnologia per costruirlo, dura pochissimo e viene quasi ogni anno ricomprato dall’utente, con un costo per l’utente e un costo di smaltimento dell’apparecchio nei due casi di recupero del telefonino che nel caso venga disperso nell’ambiente. L’economia circolare interviene nella progettazione del prodotto a fare si che il telefonino, una volta obsoleto, venga recuperato agevolmente e non venga disperso nell’ambiente; attraverso nuovi processi aziendali, che chiudano il cerchio, la materia prima seconda una volta finita in discariche perchè inutilizzata, viene recuperata a basso costo. Benissimo. Grande. Sensazionale. Ma, chiedo io, non sarebbe meglio rinunciare all’obsolescenza programmata (che nel libro è pure citata), creare dei prodotti che durano il doppio di quelli attuali e che possano essere riparati con una spesa minima dal consumatore?

Questo, che sarebbe il meglio per l’ambiente, non è possibile perché va ad intaccare uno dei capisaldi della materia aziendale, il profitto. Insomma va bene l’ambiente, va bene la gentile rivoluzione dell’economia circolare, ma non bisogna toccare il profitto.

Un altro esempio se vogliamo piu banale. Un sacchetto di plastica. Il sacchetto è monouso per definizione (chiaramente si può usare più volte, ma alla fine, una volta riempito con un po di spazzatura si butta via. Abbiamo dunque sacchetti di plastica non biodegradabile che usiamo in massimo mezz'ora e ci vogliono secoli affinchè l’ambiente “digerisca” questo rifiuto in discarica. Mettiamo allora il caso della soluzione circolare: un sacchetto biodegradabile fatto di sostanze facilmente digeribili. Il sacchetto ha un costo di produzione, anche energetico. La soluzione che sacrifica il profitto è abbandonare il monouso per i sacchetti, usare una sporta x la spesa di tutti i giorni.

Chiaro è che si tratta di due soluzioni che costituiscono un miglioramento della situazione iniziale, che chiameremo lineare, (compro materie prime>produco sacchetto>vendo sacchetto), ma la differenza tra le due opzioni è chiara a tutti, soprattutto dal punto di vista filosofico, una mette in primo piano la salvaguardia dell’ambiente, un'altra pone al primo posto il business, il profitto, e la salvaguardia dell’ambiente diventa mezzo, anche se presentato come fine, tanto è vero che dove non c’è convenienza economica la rivoluzione circolare non avviene e si continua con l’economia lineare.

Vediamo allora come nasce questa economia lineare. L’economia lineare nasce e viene promossa da un grosso finanziamento prodotto dalla Ellen Mc Arthur Fundation, una delle prime 10 fondazioni in campo mondiale per partimoni. A scopo filantropico, cerca, insieme a grandi partner, di creare dei progetti con società quotate in borsa per favorire l’implementazione pratica e la diffusione dell'economia circolare. La Mc Arthur, fondazione che ha sede a Chicago, ha creato questo grande fondo principalmente nel campo delle assicurazioni, quando morì mc Arthur, il 92% dei suoi averi finirono nella fondazione. La Ellen mc Arthur sul suo sito presenta questi parner globali: Cisco, Google, H&M, Intesa Sanpaolo, King Fisher, Nike, Philips, Renault, Unilever.

Insomma con questi soggetti bisogna stare sempre in riga e molto politically correct, impossibile parlare di decrescita, sostenibilità... tanto vero che nel libro sull’ economia circolare, quando parlano di abbigliamento dimenticano che esiste l’opzione di farsi aggiustare o riparare, rammendare un abito, nell’ edilizia non si fa menzione di stoppare o rallentare il consumo di suolo, e nell’ elettronica di consumo non si parla di allungare la vita del prodotto, che va ricomprato ma i materiali devono essere (giustamente) facilmente riparabili.

Nella mia professione mi è capitato di vendere mobili di 200 anni e mi fa ancora strano vedere mobili acquistati e già vecchi in 15 mesi. Che cosa può interessarmi se il materiale che deperisce in 15 mesi può essere efficacemente recuperato una volta buttato? Nelle sale della Reggia di Caserta i mobili della famiglia Borbone sono ancora in ottimo stato…

Il libro ha una sezione che parla di “estensione della vita del prodotto”, devo dire che lo ho atteso con impazienza sperando che le mie supposizioni siano solo frutto della mia cattiva fede e del mio radicalismo ambientalista. Purtroppo, una volta arrivato, questo capitolo si dimostra abbastanza “povero” nelle sue pratiche, si parla di riuso, si parla di aumento del fatturato attraverso la massima durata di un oggetto, l’esempio che viene usato è l’amazon kindle, che se costruito bene e per durare, porterà profitti maggiori in quanto l’utente acquisterà più prodotto per la lettura. Bell’esempio. Non si sente neanche lo stridere di unghie sulla vetrata, ma si tratta di esempi troppo limitati rispetto a dove ci sta portando il mondo. La riparabilità degli oggetti e la loro durata da qui a vent’anni.

Ad esempio i materassi, un tempo erano fatti artigianalmente e in casa e non si cambiavano mai, ci hanno dormito re e regine e nessuno si è lamentato, oggi un materasso va cambiato ogni 5 anni. Bene è che si faccia un materasso usa e getta e lo si progetti con materiali decisamente e facilmente recuperabili, ma farne uno che non si cambia frenerebbe troppo l’idea di profitto e consumo che abbiamo tutti in testa, ed è questa che dobbiamo combattere.

Si parla di Timberland che ha creato un modello di scarpe con materiali riciclati e totalmente riciclati, che fanno grande figura nelle vetrine di tutto il mondo, parlano di 500 tonnellate di Co2 per ogni 40 mila scarpe prodotte. Si, ma le hanno vendute 40 mila scarpe ecosostenibili oppure è solo un eco-show?

Il Libro è davvero ben scritto, pieno di dati, di contributi , grafici e case history. Oltre a questo è scritto con metodo e rigore aziendale. Se siete imprenditori o startuppers, ve lo consiglio caldamente perché si possono trarre informazioni ed aggiornamenti che possono essere davvero preziosi su tanti settori, non ultimi le cosiddette “piattaforme di condivisione”, che non sempre sono in linea con la circular economy, ma spesso servono a diminuire, questa volta si, i volumi produttivi (e se vogliamo introiti fiscali e previdenziali come nel caso di Uber e Airbnb).

Il libro affronta anche questi problemi, è un manuale svelto e intelligente dedicato al mondo degli affari di oggi e di domani. Peccato non sia un libro ecologista, ma un libro su quella che un tempo si chiamava la green economy ma che la già citata fondazione ha ribrandizzato. I rifiuti, il surriscaldamento globale come opportunità di business, l’inquinamento industriale come scenario e opportunità di business. Tra i tanti case study si parla di come l’industria chimica e degli imballaggi sta uscendo dalla produzione delle plastiche, di come si stia passando a materiali biologicamente degradabili, e quanti milioni di dollari è costata l’ideazione la produzione e la riconversione industriale per produrre questi beni, e come siano stati avveduti i gruppi che hanno speso una barca di denari in vent’anni di ricerca.

Il libro dimentica di parlare di scarti alimentari, del fatto che le economie capitaliste hanno portato a molti di questi problemi, dei mobili e dell’abbigliamento che devono essere riparabili e devono durare di più. Ma non è nelle intenzioni degli autori, che non si propongono di salvare il mondo, tuttavia tanti imprenditori ancora legati ad una economia lineare che possono trovare valore aggiunto e profitti nella economia circolare dovrebbero dargli una occhiata da vicino.

Davide Gatto

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